di Camillo Berardi
Fra miti, realtà, storia e leggende – Tra le montagne più alte degli Appennini spicca la “Maiella Madre”, la montagna materna degli abruzzesi, custode di paesaggi maestosi di rara bellezza e culla di civiltà e culture antichissime, di cui restano ancora oggi innumerevoli vestigia e testimonianze; incerta, però, è l’origine del nome, per la quale si rimanda alla dotta letteratura specializzata; non possiamo, invece, passare sotto silenzio la relazione etimologica di natura popolare, legata al culto della dea Maia.
Secondo questa derivazione, coerente alla primordiale sacralità dei monti, la Maiella, con i suoi meandri magici e misteriosi, è la montagna sacra a Maia.
La mitologia classica ci fa sapere che la gigantesca Maia, fiorente fanciulla dalle stupende trecce bionde, era la maggiore e la più bella delle sette Pleiadi, figlie di Atlante e di Pleione.
Maia fu amata da Zeus in una grotta del monte Cillene in Arcadia e da questa relazione nacque Ermete, unico figlio della dea.
Il mito di Maia ha dato origine ai più bei racconti abruzzesi, molti dei quali assumono grande efficacia e diventano quasi “reali”, quando possono essere confrontati, ancora oggi, con la storia, con le tradizioni con l’orografia dei luoghi. Essi accendono ed infiammano la fantasia popolare e rinverdiscono memorie antiche e credenze ancestrali, aiutando a scoprire le origini della nostra civiltà.
Fra le tante novelle che legano la Maiella al culto della dea Maia, “LA LEGGENDA DELLA GIGANTESCA MAIA” scritta in versi dal poeta Mario Lolli è, certamente, una delle più toccanti e suggestive: la fiaba racconta che la bellissima gigantessa Maia fuggì dalla Frigia per portare in salvo l’unico figlio, un gigante stupendo, ferito gravemente in una battaglia e inseguito dal nemico. Con una zattera sdrucita attraversò il mare e riuscì ad approdare nei pressi del porto dell’antica città abruzzese di Ortona, dopo un tragico naufragio. Qui, temendo di essere raggiunta dagli inseguitori, prese in braccio il gigante ferito e continuò la sua fuga attraverso forre selvagge ed impervie giogaie, scalando il Gran Sasso, dove una caverna nell’aspra roccia offrì un rifugio ai due fuggitivi.
Nell’antro rupestre la diva Maia cercò, e sperò, di mantenere in vita l’adorato figlio con l’amore materno, ma dopo qualche tempo il giovane morì, lasciando la ninfa in un’angoscia infinita.
Per vari giorni pianse disperatamente accanto al corpo del figlio e, poi, lo seppellì su una vetta del monte superbo.
Ancora oggi, a chiunque osservi il Gran Sasso, da levante verso ponente, appare chiaramente la sepoltura del giovane: infatti, la Vetta Orientale del Corno Grande, in uno scenario maestoso e incantevole, incarna le sembianze di un gigantesco volto umano assopito nel riposo eterno; conosciuto sin dall’antichità come “Il gigante che dorme”, il “ciclope di pietra” si staglia nel cielo, nel superbo dominio di un paesaggio grandioso.
In virtù di un magico incanto, in un seducente miracolo della natura, il “gigante di pietra”, osservato da un’angolazione diversa, si trasforma in una leggiadra e prosperosa donna supina dalle chiome fluenti, chiamata “La bella dormiente”.
Nei silenzi magici delle aeree cime del Gran Sasso, in uno scenario grandioso e fantastico, la ninfa Maia e l’adorato figlio si “fondono” in uno straordinario connubio affascinante e suggestivo, di colossale magnificenza; senza più distinguersi, realtà e fantasia si amalgamano in una simbiosi incantevole che non ha eguali altrove.
Dopo la morte del gigante, Maia non ebbe più pace. Sconvolta, in preda alla disperazione, cominciò a vagare sui monti, il cordoglio e l’angoscia furono talmente grandi, da stringere il cuore della povera madre, fino a farla morire.
I fedeli e i congiunti della dea, con cortei imponenti, raggiunsero Maia sull’erta giogaia, portando vesti ricche di ori e di gemme, ghirlande di fiori e di erbe aromatiche, vasi d’oro e d’argento, e, dopo averla adornata con i loro preziosissimi doni, la seppellirono su una maestosa montagna di fronte al Gran Sasso, che, da quel giorno, in sua memoria, fu chiamata Maiella.
Il nome “Monte Amaro”, dato alla cima più alta, sembra voler dare risalto al dolore di Maia, a testimonianza di un affetto e di un amore senza confini.
La leggenda della gigantesca Maia
Versi di Mario LOLLI
Musica di Camillo BERARDI
Racconta una vecchia ed amara leggenda
che Maia, la figlia d’Atlante, stupenda,
scampata al nemico fuggì dall’oriente
con l’unico figlio ferito e morente.
Raggiunto d’Italia un porto roccioso,
sfruttando le forre e il terreno insidioso,
condusse il ferito, vicino al trapasso,
in alto lassù sopra il monte Gran Sasso.
A nulla giovaron, nell’aspra caverna,
le cure profuse da mano materna:
al giovane figlio volò via la vita
lasciando alla madre una pena infinita.
E proprio quel monte d’Abruzzo nevoso
racchiuse la salma all’estremo riposo.
Il grande dolore di Maia la diva
escluse al suo cuore la gioia istintiva;
non ebbe più pace, non valse l’apporto
dei propri congiunti a darle conforto.
Sommersa dal lutto, sconvolta dal dramma,
non ebbe più pianto, non era più mamma.
Di vivere ancora non ebbe coraggio:
si spense nell’ultima notte di maggio.
Un mesto corteo con fiori per Maia
salì a seppellirla in un’altra giogaia,
rimpetto alla tomba del figlio adorato
strappato alla madre dal barbaro fato.
E quella montagna, al cospetto del mare,
d’allora MAIELLA si volle chiamare.
FINALE
“AMARO” ebbe nome la vetta maggiore
per dare risalto al materno dolore.
Nel video di seguito riportato, con le immagini dei maggiori vertici dell’Appennino, può essere ascoltata l’esecuzione corale del canto “La leggenda della gigantesca Maia” eseguita dal Coro “Tempo di Musica” diretto dal M° Dante Simonelli.
Salve, bellissimo articolo, volevo sapere l’autore della foto al tramonto tinto di viola, mi servirebbe la foto in alta risoluzione per una stampa.
Grazie
Giuseppe
Non so, mi è stata inviata