Facce di bronzo, quell’espressione un po’ così

I viaggi di due storie diverse

di Mario Salis

Facce di bronzo, statue di arenaria gessosa; i Bronzi di Riace, i Giganti di Mont’e Prama: maestosi, armoniosi, seduttori nell’unica nudità; enigmatici, imponenti, portentosi. Due storie diverse. Ma che durano quarant’anni dopo essere ritrovati casualmente. A 300 metri dalla costa reggina ionica, è un braccio sinistro che spunta dalla sabbia del fondale di circa 10 metri ad attirare l’attenzione di un sub dilettante romano impegnato in una battuta di pesca. A distanza di cinque giorni dall’avvistamento, il 21 agosto del 1982 riemerge la statua “B” che dovrebbe essere Anfiarao od Eteocle ma che sarà chiamato il giovane.Il giorno dopo è la statua “A” Tideo o Polinice, ma per tutti il vecchio.

Il viaggio dei due guerrieri non si doveva concludere in fondo al mare, così dopo soli tre anni abbandonarono il luogo del loro rinvenimento per il Centro di Restauro della Soprintendenza archeologica della Toscana a Firenze, nato dopo l’alluvione del 1966. Ma se il fango della piena dell’Arno aveva fatto scempio delle opere d’arte, quello del mare aveva in parte preservato i due bronzi.

Seguirono cinque anni di indagini grafiche, fotografiche e radiografiche, di diagnostica fisica e chimica, oltre un primo trattamento conservativo di pulitura e di parziale svuotamento interno delle due statue. La loro prima esposizione avviene al museo archeologico di Firenze, i primi sei mesi del 1981. I visitatori ne rimasero letteralmente invaghiti ritornando più volte e per diverse ore ad ammirarli. Il Presidente Pertini li volle al Quirinale dal 29 giugno al 12 luglio 1981. Finalmente nel 2013 le due statue sono di nuovo in piedi esposte nel Museo Nazionale della Magna Grecia di Regio Calabria, posizionate su due sofisticate basi antisismiche progettate dal Centro di Ricerche dell’ENEA. In soli tre mesi 45.ooo visitatori.

Ma la tournée dei due bronzi sembra destinata a non finire lì. Infatti la Royal Academy of Arts di Londra nel 2012, mentre la sede del museo reggino era in fase di avanzato approntamento e i due bronzi giacevano coricati nel palazzo del Consiglio Regionale, ne richiese uno, solo per risparmiare. Naturalmente il più giovane per far bella mostra di sé, in un’esposizione di bronzi antichi al Burlington House a Piccadilly. Nessuna sorpresa per l’analogo tentativo compiuto dall’allora ministro Urbani, destinazione Grecia. Ci prova anche il Museo Puskin di Mosca. La risposta alle due domande protocollate e alle offerte milionarie, è stata un secco no tanks e niet. Mentre lungo resta l’elenco ufficioso di richieste nazionali: il Governo Berlusconi cerca di farli clonare per il G8 di Genova, poi in originale di farli trasportare al G8 di La Maddalena, preferendogli infine lo scenario cinico delle rovine sismiche del Palazzo del Governo dell’Aquila – ancora oggi è incredibile la facilità con cui si sono compiute tali enormità, soprattutto di chi non le ha sapute impedire. Ci riprova anche Firenze ma a Reggio resistono a ragion veduta. Infatti autorevoli pareri internazionali considerano i grandi bronzi opere intrasportabili, come conferma nella fattispecie l’ICR (Istituto Centrale per il Restauro) considerato la non rassicurante presenza di fessurazioni, lesioni e diversi tipi di saldature antiche che causano fragilità e che escludono qualunque tipo di trasporto. Non penso che la Grecia si comporterebbe diversamente per l’auriga di Delfi o lo Zeus di Anticitera, al sicuro nel Giganti di Mont’e Prama.

Si dirà, ma nell’aprile 1964 La Pietà di Michelangelo varcò l’Atlantico e fu vista da ventisette milioni di persone nell’Esposizione Universale di New York, mentre rischiò più seriamente la sua incolumità il 21 maggio 1972 quando il martello di uno sconsiderato gli spezzò un braccio, scheggiandogli il viso. Ma anche quella per evidenti ragioni è un’altra storia, peraltro oggi velata dal riparo di un vetro blindato. Dicevamo storie completamente diverse, quella dei Giganti di Mont’e Prama. Per quanto vicino al mare si svolge tutta sulla terra ferma, smossa solo dal vomere rivelatore e casuale di un aratro nel 1974. Di certo non hanno mai varcato il mare dell’Isola. Gli importanti reperti giacciono per trent’anni al buio dei magazzini museali, senza che nessuno se ne preoccupi. Non è neppure una novità per i beni archeologici di altri luoghi, sembra essere il loro ciclo naturale, una volta restituiti alla luce.

E’ invece la cronaca di questi giorni a riaccendere la luce sulle sculture di Cabras. Quando è in corso la ripresa degli scavi alla ricerca di altri reperti con l’ausilio della tecnologia georadar – oggetto di un recente convegno dibattito presso la Facoltà di Ingegneria di Cagliari – che sono riemersi e fanno ben sperare sull’esito positivo della nuova campagna di ricerca. I lavori solitamente sono coperti dal riserbo naturale che contraddistingue perfino anche l’assenza di scavi su siti importanti, costituendo un’efficace sistema per preservarli. Un sopralluogo su quel crinale della costa interna di Cabras, è avvenuto a telecamere accese alla presenza del sottosegretario di Stato al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Francesca Barracciu e consiglieri regionali del territorio. Nell’occasione sono state fornite assicurazioni sulla prosecuzione degli scavi, del progetto di inviare all’Expo di Milano i modelli su scala dei Giganti insieme all’iniziativa di spedire un esemplare originale per esporlo al Quirinale.

E’ trascorso oltre un decennio quando l’on.le liberale Raffaele Costa ministro della Sanità nei Governi Amato, raggiungeva gli ospedali in incognito, come la volta dell’ospedale genovese San Carlo di Voltri, quando il portiere non riconoscendolo gli sbarrò il passo all’ingresso. Impresa che gli riuscì anche a Cagliari dopo un solitario viaggio in traghetto. Passato l’effetto sorpresa, alla stazione od all’aeroporto troverà d’ora in poi, zelanti funzionari ad attenderlo.

Siamo realisti quanto basta, per comprendere che anche la cultura ha bisogno di un marketing dedicato, di promozione e valorizzazione del suo vasto patrimonio. Quella dei Bronzi di Riace pur nella sua diversità, presenta delle indicative analogie, tali da consentire di non incorrere negli stessi errori di valutazione. Che invece si ripresentano puntualmente, complice una smisurata esigenza di visibilità che pervade il modo di fare politica. Certe notizie, intendimenti, acquistano più autorevolezza anche se provengono da una scrivania del Ministero. Questo vale ancora di più per chi si oppone, che già ci aveva abituato a sensazionali colpi di scena come riempire una diga con una bottiglia di acqua minerale, mostrando una testata di missile anticarro sui banchi del Parlamento – uno schiaffo ai servizi di sicurezza di Montecitorio – mettendo perfino nei pasticci l’ignaro nostro rombo di tuono. Questo per dire che la ricerca di visibilità oscura la natura vera dei problemi. Va ricordato invece, senza mai stancarsi di farlo, l’immane lavoro di certosina ricomposizione di oltre cinquemila frammenti, presso il centro di Restauro di Li Punti, che hanno ridato vita a Sedici pugilatori, quattro guerrieri, cinque arcieri e poi, ancora, tredici modelli di nuraghe, monotorre e polilobato. Casualmente ritrovati, faticosamente vengono alla luce. Anche loro sono stati oggetto di interesse per le Olimpiadi di Londra e l’Expo internazionale in Corea del 2012. C’è chi perfino partendo da quel loro sguardo un po’ così, quell’espressione un po’ cosi, con gli occhietti rotondi in quel viso triangolare, ha evocato la beffa di Livorno delle false teste nel pozzo di Modigliani, ad opera invece di tre burloni col Blach & Decker, che gettarono nel ridicolo critici dell’arte e responsabili di soprintendenze. Nell’ambito della loro valorizzazione c’è chi ha avanzato la stravagante proposta di esporli alla Fiera Internazionale della Sardegna. Intanto si rifà avanti a rivendicare gli ori di Tharros finiti al Britsh Museum oggetto di una proditoria e rocambolesca compravendita, in quanto furono trafugati. Insomma peggio del destino delle opere d’arte, bottino di guerra.

Si tratta più semplicemente di risolvere un problema di spazi, così come la diaspora a cui sono sottoposti oggi i Giganti, per quanto attiene il restauro a Sassari, e divisi tra Cabras e Cagliari. Sovviene alla memoria, Il Betile, molti oramai non sanno più di che si tratta, di ciò che doveva diventare, Museo dell’arte nuragica e contemporanea del Mediterraneo. Era l’idea giusta che poteva offrire l’ampiezza degli spazi necessari alle caratteristiche dei giganti, senza entrare nel merito dove ubicarlo. Si è invece ancora più propensi a scatenare tempeste nel classico bicchiere d’acqua, piuttosto che sorseggiarlo con calma per l’ausilio di idee e soluzioni più ragionevoli, oltre che condivise.

http://cagliari.globalist.it/

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *