Dedicato a Carbonia (3 parte)

Puntate precedenti
Tony si fa spingere verso un cespuglio di oleandro che sta sul marciapiede che a sua volta fa parte del campo.
Il campo è delimitato lateralmente dai muri delle case. Il pallone è fuori quando tocca i muri. Semplicissimo.
Andrea pressa Tony e la palla si impiglia nell’oleandro. Fammi uscire, dice Tony.
Questa era una regola sacrosanta.
Il giocatore che finisce con la palla in un cespuglio, arbusto o qualsiasi ostacolo normalmente non previsto in un normale campo di calcio, non deve essere ostacolato nel suo tentativo di uscire da tali incresciose situazioni.
Sicuramente una regola del genere sarebbe stata inserita anche nel regolamento ufficiale della F.I.G.C. se qualsiasi tipo di vegetazione più alta di qualche centimetro avesse avuto la possibilità di svilupparsi indisturbato all’interno di un qualsiasi campo di calcio regolamentare.
Andrea, quindi, lascia a Tony il tempo di districarsi, ma appena il gioco riprende gli ruba la palla con abilità.
Io arrivo per raccogliere i frutti del lavoro di Andrea, che deve passarmi la palla (sono più grande di lui ed anche capitano).
Andrea mi da la palla, Tore arriva a difendere ma è tardi. Tiro, e Giovanni para.
Giovanni rilancia, ma non degna neppure di uno sguardo Tony, che prima si è fatto fregare il pallone, e passa direttamente a Tore. Tutti addosso a Tore, che però e bravo e scarta anche Mario. Io sono rientrato in porta. Tore calcia verso la porta e il pallone va verso l’alto. Gol, dicono loro, alto diciamo noi.
Alto è ancora peggio di palo, perché la traversa non è nemmeno accennata. La traversa è il frutto di purissima immaginazione, e anche in questo caso ognuno vede la traversa esattamente all’altezza che gli pare e piace.
Si va a occhio, e ognuno ha il suo.
Chi difende dice che è il tiro alto, chi attacca dice che sei tu che non ci sei arrivato.
Carlo Sassi il moviolista a questo punto rassegnerebbe le sue dimissioni.
Facciamo garbatamente notare che ci hanno assegnato un accidenti di palo che non c’era, ma ci rispondono che il rigore era inesistente e ce l’hanno regalato. Riusciamo a non litigare più di tanto e a decidere democraticamente che è gol.
Uno a zero per loro. La prossima volta stendo l’attaccante prima che tiri. Mira alle gambe e non alla palla, mi dico.
Pallone a Mario, che parte solo con tutto il codazzo di avversari e compagni. Azione magistrale.
Non lo ferma nessuno.
Davanti a Giovanni molla una bomba col sinistro che passa rasoterra in mezzo alle gambe del portiere.
Non si può discutere. E’ gol ed anche centrale. Uno pari.
La partita continua così, più o meno con un gol per parte e si va avanti fino ad un nove a otto, fermandosi, di tanto in tanto, per far passare le poche auto che invadevano il campo.
Allora è fermagioco (o fermogioco) e la partita si congela nella situazione del momento in cui passa l’auto.
Se è possibile, non ci si toglie dalla strada ma sono le auto che devono evitarci. Il campo è nostro, mica loro.
Qualcuno a volte fa il furbo e al fermogioco fa finta di non sentire per guadagnare posizioni più favorevoli, ma spesso viene smascherato.
Ma è su un undici pari che avviene uno dei fatti che possono portare forzatamente alla fine delle ostilità.
La palla, per una scarponata di qualcuno, finisce su un albero di acacia che purtroppo si trova spesso a disturbare le partite in quanto il comune ha avuto la bella idea di mettere queste piante sui marciapiedi che, incidentalmente, vanno a far parte dei nostri campi di gioco.
Il problema è che questi alberi hanno delle spine piuttosto robuste a cui la gomma dei nostri palloni non sempre riesce ad opporre resistenza.
Quando la palla finiva fra i rami dell’acacia in gioco, a volte scendeva di sua iniziativa, ma a volte restava incastrata ad altezze difficilmente raggiungibili e il dubbio atroce era sapere se era semplicemente incastrata oppure era stata infilzata da una maledettissima spina che ne impediva la naturale discesa. Se era spina erano guai.
Il primo tentativo di recuperare il malcapitato pallone si faceva lanciandogli contro dei sassi.
Il sasso era un attrezzo e un’arma sempre disponibile, ma pare sia in via di estinzione perché da anni se ne vedono sempre meno. Quelli che non si vedono più per niente sono i ragazzini che giocano per strada, perciò il sasso fortunatamente ha perso la sua utilità: il pallone non va sugli alberi perché alla scuola calcio o nella X-Box i campi sono privi di tali inutili orpelli, le armi si selezionano con l’apposito tasto, le fionde non hanno più motivo di esistere e i pinoli non si mangiano più.
Addio, sassi sorgenti dalle strade ed elevati al cielo…
Il recupero del pallone incastrato fra i rami di acacia mediante lancio di sassi era un’operazione che  aveva diversi effetti collaterali: se il pallone, colpito, non scendeva subito si proseguiva coi lanci di pietre che, rimbalzando sulla gomma della sfera, prendevano direzioni imprevedibili e potevano, di volta in volta, colpire uno dei giocatori, colpire le auto che proprio in quel tragico momento avevano deciso di passare tutte insieme, colpire qualche auto parcheggiata che non si sapeva perché l’avevano messa proprio lì sotto l’albero o, peggio ancora, colpire qualche finestra delle case che delimitavano la linea di fallo laterale.
Se il pallone scendeva abbastanza presto si riprendeva a giocare, altrimenti si doveva fare scaletta al più leggero di noi che avrebbe smanacciato o abbrancato il pallone imprigionato.
Il più leggero era Tony, ma era vestito bene e non poteva arrampicarsi.
Perciò toccava ad Aldo, appena meno leggero di Tony, ma vestito con la divisa d’ordinanza.
Scaletta con le mani, Aldo prende il pallone e, se si stacca, tutto a posto. Se non si stacca bisogna tirare, e se tirando si libera la palla e si sente un sibilo allora la spina ha colpito.
Il pallone in pochi minuti diventa una vescica molle e la partita finisce lì, a meno che non ci sia il tempo di procedere con la riparazione dell’oggetto della contesa.
La riparazione è una procedura che merita un discorso a parte, ma in breve si può dire che serviva un coltello, o un qualsiasi oggetto piatto di metallo, e la possibilità di accendere un bel focherello.
Per comodità narrativa diremo che quella volta non ci fu spina e la partita riprese con le solite modalità.
I falli e i “metti punizione” conseguenti si susseguivano al pari dei gol, nuove croste foderavano le nostre ginocchia e spesso ci si accapigliava per una decisione arbitrale non condivisa.
L’unico fallo che non si commetteva era il fallo di mani. Maradona non aveva ancora sdoganato questo singolare modo di giocare al calcio e toccare la palla con le mani era ancora una vergogna indicibile. Non sapevi giocare, se facevi mani: punto e basta.
Bisogna osservare, inoltre, che tutto questo succedeva quando le temperature erano piuttosto elevate, ma noi non avevamo mai caldo e non avevamo mai freddo. Per noi era sempre tiepido e andava bene.
I nostri genitori boccheggiavano col ventilatore puntato addosso e noi giocavano con quaranta all’ombra. Se adesso mi si guasta il condizionatore posso anche tenere in seria considerazione il suicidio.
La partita prosegue, quindi, e si arriva anche a punteggi come quindici a tredici.
Qualcuno potrà chiedersi, a questo punto, quanto durava una partita.
Questo è il punto.
La partita non aveva una durata prestabilita, e non era divisa in tempi di gioco.
Si giocava ad oltranza fino a che, come muezzin dai minareti, si udivano i richiami delle mamme che si affacciavano alle finestre e chiamavano a gran voce i figli.
Il patto, con le nostre mamme, era che noi dovessimo sempre restare a portata di voce.
Non era necessario che ci vedessero.
L’importante era che noi potessimo sentire le loro voci.
Quello era il nostro telefono cellulare nei tempi in cui non c’era neppure il telefono in tutte le case.
I richiami venivano fatti con determinati criteri, primo dei quali era che le mamme non accavallassero le loro voci nel chiamarci ma che potessero gridare a turno.
Le voci delle mamme erano preferite a quelle dei babbi perché, essendo più acute, avevano un portata maggiore. I babbi facevano chiasso da vicino ma da lontano non li sentivi.
Loro non ammettevano questa differenza e quindi noi non potevamo dire che non li avevamo sentiti; per questo preferivamo le voci delle mamme: le sentivamo meglio e di conseguenza potevamo allontanarci di più.
I richiami avevano caratteristiche ritmiche e melodiche ben precise, ma al fine di evitare di entrare in particolari troppo tecnici ci si può limitare a dire che i nomi venivano “gridati” sempre nello stesso modo se avevano uguale numero di sillabe e accento nella medesima sillaba.
Per questo la mamma di Andrea chiamava il figlio intonando e ritmando il nome esattamente come faceva la mamma di Alberto nel chiamare, appunto, Alberto.
Andrea e Alberto hanno entrambi tre sillabe e l’accento sulla seconda.
Stesso discorso per i nomi di due sillabe (Aldo, Tore, Tony) e per altre figurazioni.
Quando le mamme muezzin chiamavano, le partite si interrompevano senza neppure un minuto di recupero. Il risultato era acquisito e si chiudeva così.
Il proprietario del pallone si prendeva ciò che era suo e ci si avviava verso casa.
Ciao, ci vediamo domani.
Ci sei?
Forse andiamo al mare.
Vabbè, se ci sei scendi.
Domani sarebbe stato un altro giorno e ci sarebbe venuta qualche altra idea, ma questa è un’altra storia.

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