…ed ai suoi bambini degli anni ’70
PROLOGO
Guardai l’orologio.
Mancava poco.
Ancora un quarto d’ora e sarei stato in campo per la partita.
Mancava un quarto alle cinque del pomeriggio, infatti, e i miei non mi permettevano di uscire a giocare prima di quell’ora.
Prima si disturbava il vicinato, e questa era una regola tacita che tutti rispettavano.
Quelle ore pomeridiane erano sacre.
Erano le ore delle cavallette, diceva il padre di un mio amico, per dire che in strada c’erano solo quegli insetti ortotteri in quelle che, soprattutto in estate, erano le ore più calde della giornata.
Le scuole erano chiuse da qualche giorno, e così ormai non c’era da preoccuparsi d’altro che di giocare.
L’inverno era passato giocando spesso in casa, si usciva per strada ma molto meno, sia per il tempo che per il fatto che faceva buio presto.
Ma una volta che le giornate si allungavano e che scattava l’ora legale, nulla poteva più tenerci fra le mura domestiche.
La mattinata l’avevamo trascorsa contro una banda di indiani pellerossa che avevano attaccato il nostro fortino.
La difesa era stata dura, ma alla fine l’avevamo spuntata anche se c’era stata una perdita: facciamo che tu eri morto, avevamo concordato rivolgendoci al più piccolo del gruppo, e in questo modo eravamo riusciti a dare un tocco di realismo in più.
Almeno un morto, fra noi, ci doveva scappare.
Riuscimmo a sconfiggere gli indiani appena in tempo, perchè ormai era ora di pranzo e il padre di Giovanni doveva chiudere il cortile dove aveva ammassato il materiale edile che vendeva nel suo negozio, e fra questo c’era la catasta di legname ben tagliato e squadrato che noi usavamo come fortino.
La chiusura del negozio segnava la fine di ogni ostilità e segnalava anche che nelle nostre case il pranzo ormai era pronto.
Ci vediamo stasera, morto compreso.
A casa, prima di tutto, ci avrebbero costretti a lavarci mani e ginocchia, ma per noi era un’operazione del tutto superflua visto che da lì a poco sarebbero state di nuovo nelle stesse condizioni.
Una volta terminato il pranzo, restava da far trascorrere in qualche modo le ore che ci separavano dalle fatidiche cinque del pomeriggio per riprendere le attività bruscamente interrotte.
I nostri genitori ci avrebbe messo volentieri a dormire, non fosse altro che per lasciar riposare loro, ma la loro era una missione impossibile: non dormivamo neppure col sonnifero, e allora ci si dedicava a ripassare vecchi fumetti che conoscevamo benissimo a memoria o a qualche altra attività.
L’importante era non fare nessun tipo di rumore, cosa che ci riusciva con non poche difficoltà quando non ci riusciva proprio per niente.
La televisione era praticamente inesistente, per noi, anche perchè quel poco di trasmissioni che potevano interessarci iniziavano quando ormai eravamo nuovamente fuori di casa.
D’inverno riuscivamo a vedere qualcosa, ma non avevamo una gran passione per quella scatola luminosa: in genere avevamo da fare cose molto più interessanti.
Così anche quel pomeriggio arrivò l’ora in cui i nostri guinzagli venivano nuovamente sganciati, e finalmente ci ritrovammo giù in strada.
Arrivò Tore, con Aldo, poi sbucarono Andrea e Tony e anche Mario arrivò frenando a striscio con la sua bicicletta Legnano.
Giovanni non si vedeva ancora, ma sarebbe stato meglio che non avesse tardato perchè era necessario gonfiare un po’ il pallone col compressore che il padre usava nell’officina; altrimenti avremmo dovuto scegliere se giocare col pallone sgonfio o andare a gonfiarlo nell’officina di signor Fornasier.
Alla fine arrivò anche Giovanni e il pallone riprese vita, anche se dell’originale forma sferica gli restava ormai ben poco.
Il pallone era mio, ma questo non faceva di me il dominus del gioco.
Tutto era improntato alla filosofia più comunista di quella dei comunisti.
Tutto era nostro.
Il concetto di “mio” poteva venir fuori solo in seguito a qualche litigio, ma durava poco.
Ognuno di noi non sapeva che farsene di oggetti fabbricati per giocare in tanti se poi rimaneva da solo.
Questa volta c’eravamo tutti, rigorosamente in numero dispari in modo che non dovessimo avere nessuna difficoltà nel fare le squadre.
C’erano diverse possibilità di gioco.
Spesso, se eravamo in numero dispari, si giocava a chi segna entra o a chi non segna entra, dove con “chi” si indica colui che giocherà in porta fino a che non subirà una rete o, secondo la formula scelta, fino a che non parerà un tiro diretto in porta.
In quei casi, il portiere verrà sostituito da chi ha segnato o da chi si è visto parare il tiro.
In questo modo non c’era una vera e propria partita, ma solo un susseguirsi di azioni, cross, calci d’angolo tirati da angoli immaginari e il tiro era tacitamente permesso a chi si trovava in posizione favorevole.
La “partita” si giocava senza che alla fine si decretassero vincitori o vinti.
Questo modo di giocare si chiamava anche “a passaggi”, che a volte si trasformava nel tipo detto “a rigori”.
In questo caso il meccanismo per i portieri era lo stesso di chi segna, o chi non segna, entra, ma invece di azioni o cross ci si avvicendava a turno a tirare dei calci di rigore.
Capitava a volte che, per impegni delle rispettive famiglie o perchè alcuni di noi erano puniti per dei misteriosi motivi che solo i genitori sapevano, in strada alle cinque ci si ritrovasse solo in due, ma questo non costituiva un vero e proprio problema: si andava a giocare in via Bacu Abis, sotto casa di Andrea e Giovanni, e si facevano due porte: una era costituita dal cancello del cortile di Giovanni (il cortile col fortino) e l’altra in qualche modo si “tracciava” dalla parte opposta, ad una decina di metri di distanza, nella facciata della casa di Andrea.
Il “campo” che veniva a così a formarsi fra le due porte era disposto in senso ortogonale alla carreggiata stradale, e sarebbe stato perfetto se di tanto in tanto qualche auto non avesse fatto una momentanea invasione di campo.
Ma nulla poteva interrompere quelle gare che si svolgevano semplicemente tirando dei calci da fermo e cercando di segnare ognuno nella porta dell’altro.
Era tacitamente accettato che si tirasse raso terra perchè le finestre della casa di Andrea erano sottoposte a gravi rischi.
Non avevamo erba, in quei campi estemporanei, e non potevamo noleggiare sintetici campetti da calcetto perchè il calcetto non esisteva: il calcetto era quello che facevamo noi in strada, che poteva essere uno contro uno, cinque contro cinque o venti contro venti.
Non c’era erba e non c’era nulla che si frapponesse fra le nostre ginocchia e la ghiaia, o il cemento, l’asfalto o la terra mista a sassi che erano le superfici solite in cui si giocavano le nostre partite. Così, nel giro di poche ore, si formavano sulle ginocchia quelle naturali ginocchiere di sangue raggrumato, dette croste, che invece di proteggere da ulteriori traumi avevano la pessima caratteristica di staccarsi e riprendere a sanguinare.
Stessa sorte, spesso, toccava ai gomiti.
La partita che ci apprestavamo a giocare, questa volta, era una partita “regolare”, una partita vera perchè poteva giocarsi fra due squadre, una di quattro giocatori e una di tre.
Il più piccolo, o quello universalmente riconosciuto come il più scarso, avrebbe fatto parte della squadra di quattro che, tanto, con lui non avrebbe usufruito di un vero e proprio uomo in più.
I due più “anziani”, o i più forti, erano teste di serie e quindi non dovevano far parte della stessa squadra: loro sarebbero stati i capitani delle due squadre e avrebbero scelto uno ad uno, alternandosi, i giocatori della propria squadra.
Questo era il modo più democratico e più equilibrato di fare le squadre. La nostra era una società perfetta.
Fatte le squadre, o a volte prima di farle, si stabiliva quale tipo di partita regolare avremmo giocato: c’erano tre modalità di gioco.
La prima era normale, con un portiere per parte e il resto diviso fra attaccanti e difensori; questa modalità prevedeva un numero di partecipanti piuttosto consistente, con almeno cinque giocatori per parte.
La seconda era “a portieri attaccanti”, che era uguale alla prima ma con i portieri che potevano andare anche in attacco.
I gol in contropiede fioccavano a decine.
Si giocava in questo modo se si era in pochi.
La terza era “a porte vuote”, cioè senza portieri e con porte di dimensioni ridotte.
Il campo, quasi sempre, era esattamente in mezzo alla strada, che poteva essere via Bacu Abis o via Caput Acquas, disposto in senso longitudinale alla carreggiata.
Questa stupenda possibilità ci si presentò quando il comune di Carbonia decise di asfaltare tutte le strade, comprese queste traverse di via Cagliari che fino ad allora erano una pietraia in cui giocare era possibile a patto che si mettesse in conto una serie innumerevole di infortuni e soprattutto dei rimbalzi del pallone totalmente imprevedibili da farti diventare un brasiliano o farti diventare scemo.
Con l’asfalto, il comune ci regalò praticamente un vero campo di calcio, che potevamo anche tracciare con del gesso o con delle pietre che “scrivevano” in bianco.
Le porte venivano delimitate lateralmente da mucchietti di sassi che sostituivano i pali, mentre in altezza si andava a occhio.
Questo fatto poteva causare discussioni interminabili che non si sarebbero risolte neppure con la moviola in campo, ma è un altro discorso.
Sia il campo di via Bacu Abis che quello di via Caput Acquas erano “in lieve pendenza” verso via Cagliari, ma a condizione di non farsi mettere sotto dalle auto che transitavano in via Cagliari si poteva anche accettare questo lieve inconveniente e inseguire, correndo coi talloni nel sedere, i palloni che fuggivano rotolando verso la suddetta via.
D’altronde neppure i campi di serie A dovevano essere perfettamente “in bolla”…
Le auto transitavano anche in mezzo al nostro campo, ed erano una vera rottura di scatole.
Non ne passavano tante, ma quando passavano esisteva una regoletta di cui parleremo meglio in seguito: si chiamava “fermagioco” e si applicava ad una casistica piuttosto varia e ampia.
Stabilito il campo, le squadre e la durata, che non aveva proprio nulla di stabilito, tutto era pronto per il calcio d’inizio. L’arbitro si chiamava “buonsenso”, e spesso arbitrava male.
Tutto pronto, quindi, ma la cronaca della partita ve la racconto un’altra volta.
Segue…
Alberto Loi