Per i nostri vecchi era Port’e Biddanoa, inevitabile tregua dopo la ripida erta che “sa Costa”, Via Manno, ed invitante sosta per chi scendeva da Castello.
Prezioso scrigno di nostalgiche memorie per chi, come me, giovinetto in quegli interminabili anni ’40, la elesse a luogo di riferimento, di incontro, di attesa del calar di giovani fanciulle delle scuole magistrali, i libri stretti sul braccio, i lunghi capelli ondeggianti e lo sguardo malizioso, fautore di tumultuose emozioni all’incrociar col tuo.
Dall’offelleria di Tramer il caldo profumo di dolci mappena sfornati, suscitava languori che il desolante, permanente vuoto delle tasche non poteva attenuare.
I bimbi col nasino per aria sbirciavano nella vetrina del signor Lippi (Lippis nella deformazione dei clienti, che mandava in bestia il titolare), poveri giocattoli confusi tra rocchetti e sigarette di filo. Anche l’attiguo tabaccaio Serra vendeva sigarette sfuse, ma di tabacco, e noi riunivamo i resti della paghetta settimanale per acquistare tre sigarette “Africa” che, divise in turni di due “tirate” ciascuno, avrebbero soddisfatto le piccole voluttà di cinque o sei ragazzi per un’intera serata.
Dall’uscio del cappellaio Sessa l’odore della colla di pesce teneva lontano i passanti ma, accanto, nel bar Guerrini, animate discussioni sportive tra un sorso di vermouth o un bicchierino di Alchermes.
Nella vetrina del fotografo “Mola”, uno splendido vecchio dalla canuta barba fluente, pareva guardarci corrucciato, come per ricordarci che, a casa, ci attendevano le traduzioni dal “De bello gallico”, mentre “fill’e preri”, lo strillone di Gigino Cocco, edicolante nell’androne di casa Ballero, urlava, storpiandoli, i titoli dei vari quotidiani, davanti alla vetrina dell’altro fotografo, Sorresu, e del negozio di modesti abiti confezionati “ALTOLA‘”.
Davanti all’ingresso della farmacia SALUZ, all’angolo con la via Torino, interminabili conversazioni letterarie, politiche o satirici pettegolezzi, tra illustri professionisti e giornalisti, col cappello di castorino in inverno o la “paglietta” in estate.
Noi contavamo le pagliette o le barbe: se ne fossero transitate almeno quindici avremmo evitato l’interrogazione l’indomani.
Intanto, al centro della piazzetta, un indimenticabile personaggio dotato di straordinare capacità mnemoniche, Pietro Evento, recitava, a richiesta degli studenti, qualunque brano della Divina Commedia, memorizzata nelle lunghe ore di solitudine, interrompendosi solo per fare largo al tram n. 1, avviato verso il capolinea di Piazza Palazzo, che ospitava inevitabilmente qualche “picciocch’e crobi”, arrampicato sul respingente posteriore, che sarebbe diventato anteriore una volta rovesciato l’archetto, all’ultima fermata ai piedi delle scalette della Cattedrale.
Nel bar di Caredda e Loy, sotto il bastione dello sperone, con pochi centesimi (di lira), potevi compare le caramelle “fior di latte” contenute, sfuse e scartate, in grandi boccioni di vetro; ma nella drogheria dei fratelli Maxia, all’inizio della via Garibaldi, vendevano gli squisiti tronchetti della “liquirizia di legno”.
In estate, sotto le scalette del bastione, sostava il carrettino della “Gelateria Siciliana”: il gelataio attirava i clienti soffiando in un fischietto a canne e offriva, tra le molte sue leccornie, gelati a forma di sandwuich tra due cialde quadrate, prezzo 40 centesimi (sempre di lira).
Al calar del sole, illuminata dalle fioche luci dei pochi lampioni e delle poche vetrine, la piazzetta pareva un piccolo, romantico angolo di Montmartre.
Ora, nel silenzio della notte, mentre la città dorme, nello spiazzo di “Port’e Biddanoa” si ritrovano i fantasmi del barone Sanjust col marchese di Laconi, don Cicito Ballero e don Tatano Canelles, il barbone “Casu marzu” con Pietro Evento, Pippo Della Maria con Alessandro Cosentino, Vincenzo Sorresu con Mario Pes, tutti concordi nel beffeggiar le nuove generazione che corrono, corrono veloci, senza soffermarsi un attimo, perchè il semaforo non lo consente e la piazzetta è diventata solo un anonimo punto di transito. Solo loro, beccius casteddaius, animano ancora la notte della piazza, con l’arguzia ed il gusto del lazzo e del pettegolezzo.
Poi, quando la prima, timida luce dell’alba annuncia il mattino, si salutano con larghe scapellate: “meri miu su conti”, “a si biri su dottori”, “bona giornara don Ciccitu”. A si biri in paxi.
Racconto di Livio Sorresu